Nonostante il rallentamento della congiuntura cinese da inizio anno, la crescita su base annua del 7,5 per cento registrata per il PIL nel secondo trimestre fa ancora impallidire i dati delle altre principali economie mondiali, ma al contempo è lontana anni luce dal picco del 14 per cento toccato nel 2007. L'espansione a rotta di collo della Cina e il conseguente appetito di materie prime sono state un importante sostegno per i Paesi produttori di commodity nello scorso decennio, mentre l'export praticamente di qualsiasi prodotto – dall'abbigliamento all'elettronica – ha reso la Cina il maggior esportatore a livello mondiale. Nella prima parte dell'anno la Cina ha addirittura scavalcato gli USA come la maggiore nazione commerciale a livello globale, e la sua crescente integrazione con le altre principali economie è il fattore che rende la prospettiva di un rallentamento tanto potenzialmente pericolosa per lo stato di salute della congiuntura globale.
Ma il tasso di crescita economica più tranquillo della Cina è davvero così pericoloso?
La risposta sintetica è no. I team Economic Research e Global Strategy del Credit Suisse, sotto la guida del Chief Economist Neal Soss, hanno analizzato le conseguenze che il rallentamento della Cina potrebbe avere sull'economia mondiale, giungendo a una conclusione piuttosto sorprendente: il miglioramento del quadro economico negli USA e in Europa produrranno sui trend dell'economia globale un impatto maggiore rispetto ai tiepidi dati provenienti da Cina e Asia. In prospettiva futura gli analisti non prevedono peraltro un ulteriore rallentamento significativo della crescita cinese, e tale stima appare supportata dalla recente pubblicazione di dati economici positivi, tra cui un aumento sorprendentemente ampio del 10 per cento della produzione industriale.
Valutando i dati delle importazioni cinesi in modo diverso, le cifre cambiano nettamente
Una delle principali ragioni per cui il rallentamento della crescita cinese dà da pensare agli osservatori di mercato è il fatto che questo gigante da 1,3 miliardi di persone assorbe una percentuale considerevole delle esportazioni mondiali – le importazioni lorde cinesi incidono infatti per il 2,9 per cento del PIL globale, contro il 3,6 per cento dell'Unione Europea e il 3,8 per cento degli USA. Quando un appetito così smisurato di beni e servizi segna il passo, ci si potrebbero dunque attendere pesanti ripercussioni per le altre economie. Ma se si considerano i dati delle importazioni cinesi in modo diverso, il quadro cambia sostanzialmente: una filiera di approvvigionamento globale più integrata significa che molti Paesi, e in primis la Cina, importano semplicemente le componenti di un prodotto, lo assemblano in una fabbrica e lo riesportano in un altro Paese per un'ulteriore fase di lavorazione o per la vendita. Le importazioni a valore aggiunto della Cina – in altre parole, la quota di importazioni totali che restano in Cina e sono vendute ai clienti cinesi invece che essere assemblate e riesportate – incidono soltanto per l'1,7 per cento del PIL globale complessivo. Questo valore è circa la metà delle importazioni a valore aggiunto di USA o Unione Europea, ed è maggiore soltanto del 50 per cento dello stesso dato per il Giappone. "Su scala globale, la domanda interna negli USA e nell'UE sono più importanti che la domanda cinese", hanno constatato gli analisti del Credit Suisse in una relazione.